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Meccanismo d’azione del rimedio omeopatico: Considerazioni

Considerazioni sul meccanismo d’azione del rimedio omeopatico

scritto il 30 gennaio 2010 da Ing. Claudio Cardella |  4 commenti  
Periodico: Alba Magica
Data: luglio 2007
Autore: Ing. Claudio Cardella
Occorre innanzitutto spiegare brevemente in cosa consiste e come viene elaborato un rimedio omeopatico.
Nel caso più comune, che è quello delle centesimali hannemaniane (CH), una goccia di principio attivo che può essere vegetale, minerale, animale viene diluita in 99 gocce di acqua per ottenere una diluizione del principio attivo di 1/100. Questa soluzione viene poi “dinamizzata” ossia agitata energicamente un certo numero di volte. Questa procedura di diluizione e dinamizzazione produce la prima diluizione omeopatica centesimale indicata come 1CH. Poi si prende una goccia di questa soluzione e si diluisce ancora in 99 gocce di acqua e così di seguito, sempre dinamizzando la soluzione tra una diluizione e l’altra. Otteniamo così le diluizioni omeopatiche centesimali successive alla prima, ossia 2CH, 3CH, … e così via. Quindi il rimedio omeopatico è un principio attivo che viene ripetutamente diluito nell’acqua e dopo ogni soluzione viene agitato, o “succusso”, che è il termine usato in omeopatia.
La peculiarità dell’omeopatia, su cui continuano ad accanirsi i sui detrattori, è che il principio attivo, dopo le prime tre o quattro diluizioni, non è più reperibile dal punto di vista chimico nella soluzione; ciò significa che una 4CH è chimicamente indistinguibile dall’acqua con cui è stata preparata.
Infatti l’acqua bi-distillata intesa come reagente chimico di buona qualità, è, in nella maggior parte dei casi, certificata pura, dal produttore, a meno di una parte per milione (1ppm). Ciò significa che il produttore garantisce che essa contiene al massimo 1ppm di impurità. Nella prima diluizione omeopatica centesimale (1CH), il principio attivo è presente in ragione di una parte su cento, nella 2CH di una parte su diecimila, e nella 3CH di una parte su un milione; ne consegue che dalla terza diluizione in poi, l’acqua omeopatica risulta all’analisi chimica altrettanto pura quanto l’acqua di partenza ed è dunque indistinguibile da quella.
Come funziona questo rimedio?
Il rimedio viene per lo più presentato in globuli di lattosio, o granuli, sui quali è stata spruzzata l’acqua che ha ricevuto il trattamento omeopatico. Quando si assumono i granuli, la parte attiva, dal punto di vista del rimedio, è dunque l’acqua omeopatizzata, e ciò vale ovviamente anche quando il supporto di questa acqua è diverso dai granuli di lattosio.
Come è capitato a molti altri, ho cominciato ad occuparmi di omeopatia quando ne ho personalmente constatato l’efficacia: un amico medico mi aveva consigliato un rimedio per curare il disturbo di cui gli avevo parlato e, dopo aver seguito il suo consiglio, il disturbo scomparve. Colpito dalla rapidità della mia guarigione, volli conoscere cosa conteneva quel rimedio prodigioso e venni a sapere con grande stupore che dal punto di vista chimico e farmacologico il rimedio non conteneva assolutamente null’altro che il lattosio dei granuli. Ragionando giunsi alla conclusione che se il rimedio agiva in assenza di un principio attivo rilevabile dalla chimica farmacologica, o era un placebo bell’e buono, o la sua azione doveva essere di tipo fisico. Il passo successivo fu quello di eliminare per quanto possibile lo scoglio del placebo per cui si può avere una guarigione anche somministrando acqua fresca. A tal fine cercai collaboratori e con loro costituii un gruppo di ricerca, formato in prevalenza da biologi e farmacisti.
Insieme abbiamo sperimentato l’omeopatia su organismi per i quali non fosse invocabile l’effetto placebo. In una di queste prove abbiamo omeopatizzato il Seccatutto, uno dei più potenti diserbanti reperibili sul mercato (una miscela di Paraquat e Diquat, per gli addetti ai lavori). Ho sempre preferito preparare direttamente tutti i rimedi omeopatici da usare in laboratorio, per avere sotto controllo l’intera procedura sperimentale. Così per il Seccatutto seguimmo il metodo che ho descritto all’inizio fino ad ottenere una diluizione 11CH. Questa diluizione era stata scelta in relazione all’inverso del numero di Avogadro (1/N=1,66*10-24), a garanzia che nella soluzione finale non fosse statisticamente presente neanche una molecola del principio attivo di partenza.
Poi impostammo un esperimento “in cieco” ove l’operatore non sapeva se i recipienti a lui consegnati per la sperimentazione contenessero acqua pura o acqua trattata omeopaticamente. Uno dei miei collaboratori farmacista ed esperto in preparazioni omeopatiche confezionò 30 bottigliette da 100 cc, la metà delle quali conteneva il diserbante omeopatizzato, comprato ai Consorzi Agrari (con speciale permesso perché altamente tossico). Il contenuto delle 30 bottigliette era comunque indistinguibile ai normali metodi dell’analisi chimica. Perciò i recipienti erano stati siglati dal preparatore, che era l’unico a conoscerne il contenuto. Tutti gli sperimentatori hanno eseguito un protocollo standard che, tra l’altro, li impegnava a non scambiarsi notizie sull’esperimento per tutta la sua durata (15 giorni). Ogni ricercatore riceveva 2 scatole di Petri contenenti ciascuna un disco di carta bibula e 25 lenticchie. Tutte le lenticchie provenivano dalla stessa confezione. Il protocollo sperimentale prevedeva che ogni ricercatore innaffiasse giornalmente le lenticchie nelle due scatole di Petri sempre con l’acqua di una stessa bottiglietta, ovviamente una per scatola. La durata dell’esperimento era sufficiente a far germinare le lenticchie in piantine con foglioline e radicole ben formate.
Alla fine dei 15 giorni si sono misurate le piantine e le radicole. In questa sperimentazione non c’era dunque la possibilità che i risultati fossero inquinati dall’effetto placebo. A conti fatti si è visto che le lenticchie che erano state innaffiate con l’acqua omeopatizzata erano cresciute il 30% in più delle altre. Ciò significava che le proprietà del Seccatutto –che come si è già detto è un forte diserbante– erano state invertite dal procedimento omeopatico, onde si era comportato come un fertilizzante. Questa inversione delle proprietà del principio attivo è una caratteristica dell’omeopatia ed è nota come “Legge di Arnoldt-Schultz”, e vale, –salvo poche eccezioni– per tutti i principi sottoposti al trattamento omeopatico, il quale ne capovolge l’effetto, onde, ad esempio, il caffé dopo un trattamento omeopatico diventa un tranquillante.
Già da questa premessa s’intuisce che in omeopatia avvengono cose strane che non trovano spiegazione né nella chimica, perché la chimica cerca nell’acqua una sostanza che non c’è, o meglio, che non c’è più in quantità misurabile, né dalla fisica che non riesce a dar conto, tra l’altro, della famigerata “Legge di Arnoldt-Schultz”. Il fatto che l’acqua conservi un ricordo del principio attivo e che questo ricordo si rafforzi con le successive diluizioni omeopatiche, per la scienza accademica è tuttora un’eresia che merita la gogna. Tuttavia oggi, grazie a studi meticolosi compiuti presso l’Università di Napoli, abbiamo l’evidenza sperimentale che l’acqua, a seguito di un trattamento omeopatico muta in modo ampiamente misurabile alcune sue proprietà chimico-fisiche. Non si è ancora in grado di riconoscere quale principio attivo sia stato immesso nell’acqua, tuttavia si può agevolmente distinguere, e con grande precisione, il campione d’acqua che ha avuto un trattamento omeopatico da quello che non lo ha avuto.
Le proprietà dell’acqua che vengono alterate dal trattamento omeopatico in maniera significativa sono: il Ph, la costante dielettrica, l’entalpia di mescolamento e con ogni probabilità la costante di dissociazione.
Vale la pena di insistere su questo punto perché la scienza accademica proprio qui continua a fare orecchie da mercante. Ripeto dunque che le alterazioni a cui ho fatto cenno, possono essere lette con grande precisione dagli strumenti di laboratorio e l’analisi di alcune proprietà chimico-fisiche, mostra differenze tra i due campioni sufficienti a distinguerle uno dall’altro.
Ancora più interessante è il fatto che nell’acqua omeopatica l’entalpia di mescolamento, che in definitiva è un calore interno, cresce nel tempo anche quando l’acqua non subisce alcun ulteriore trattamento. Normalmente il calore, anche interno, di un corpo diminuisce nel tempo quando il corpo è lasciato a se stesso e la temperatura esterna è inferiore a quella del corpo. Invece per queste acque vale il contrario: lasciate a se stesse si “scaldano” al passare del tempo, almeno per un certo periodo, che è dell’ordine dei mesi. Questo aspetto è degno di attenzione, perchè il trattamento omeopatico oltre a produrre un’inversione del principio attivo, instaura anche un’inversione temporale, come in un film proiettato cominciando dalla fine.
In conclusione si osservano due inversioni, una del principio attivo, che chiamo “inversione spaziale”, e una dell’entalpia di mescolamento che chiamo “inversione temporale”. Questa è una prerogativa molto singolare che ad oggi è stata notata solo nel trattamento omeopatico dell’acqua.
Fui il primo ad intravedere la possibilità che l’acqua fosse dotata memoria. Nel 1979, (con dieci anni d’anticipo sulla pubblicazione su Nature del prima famoso e poi famigerato lavoro di Jacques Benveniste ed altri), avevo scritto un articolo intitolato “Il ruolo dell’acqua nei sistemi biologici”. In quel lavoro citavo,tra l’altro, un articolo di “Scientific American” –purtroppo non reperibile in letteratura, (guarda caso)– ove si diceva che si era osservato sperimentalmente un cuore di rana reagire alla digitale omeopatica. È noto che la digitale agisce sul cuore di rana fornendogli capacità contrattile, e lo fa battere anche quando è espiantato dall’organismo dell’animale.
Ma, nel mio articolo, avevo avuto l’impudenza di sostenere che il cuore di rana reagiva anche a una soluzione di digitale a una concentrazione espressa da una cifra preceduta da trentacinque zeri! Ciò fu ampiamente sufficiente a procurarmi l’ostracismo di tutte le riviste scientifiche a cui avevo sottoposto l’articolo per la pubblicazione.
Infine, come ultima risorsa, lo inviai a una sommità della chimica, persona nota per la sua apertura mentale, che ovviamente conoscevo solo di fama. Era Linus Pauling, uno dei padri della chimica moderna, laureato con due premi Nobel, per la Chimica e per la Pace. Fu l’unico a darmi una risposta articolata, anche se completamente negativa. Disse di non condividere molte delle mie affermazioni, e specialmente quella dove ipotizzavo l’esistenza della “memoria dell’acqua”.
La dichiarazione di disaccordo del massimo chimico vivente divenne per me l’autorevole attestato di primo ideatore della memoria dell’acqua.
Il ragionamento che mi aveva portato a ipotizzare la memoria dell’acqua era il seguente.
Supponiamo di poter legare una molecola con uno spago e di infilarla in un bicchiere d’acqua e poi tirarla fuori intatta. L’interrogativo che a quei tempi mi ponevo era se l’acqua del bicchiere rimanesse immutata oppure subisse una modificazione in seguito al solo inserimento della mia molecola al guinzaglio. La risposta che mi appariva più plausibile era negativa, perché quell’acqua aveva avuto una storia, in quell’acqua era successo qualcosa, anche se questo qualcosa non era una soluzione chimica. Il solo fatto che la molecola fosse entrata ed uscita, rendeva la storia dell’acqua nel bicchiere diversa da quella dell’acqua che non aveva incontrato la molecola. In altre parole, anche se non si era verificato un evento chimico, non si poteva negare che aveva avuto luogo un evento fisico. La natura di questo evento era un’interazione tra campi elettromagnetici. È noto che l’acqua è dotata di una struttura molto particolare, costituita da legami forti, -tra l’ossigeno e l’idrogeno all’interno della molecola-, e da legami deboli –tra l’ossigeno e l’idrogeno di molecole differenti–. Questi legami deboli sono di tipo elettromagnetico, e la molecola al guinzaglio che andavo ad tuffare nell’acqua era anch’essa comunque dotata di una struttura elettromagnetica. I due campi elettromagnetici interagivano mediante un rapporto di scambio che li modificava.
Perciò l’acqua doveva essere, anche di poco, ma strutturalmente diversa dopo la visita della molecola, onde in qualche modo tale diversità doveva restare impressa nella struttura. In ciò per me consisteva, nel lontano 1978, la memoria dell’acqua.
Oggi, il discorso è diventato moto più articolato, alla luce degli insegnamenti ricevuti da Francesco Panaria.
Per capire come funziona, almeno in linea di principio il meccanismo d’azione di un rimedio omeopatico, supponiamo di fare un esperimento molto semplice: gettiamo uno ad uno, in un bicchiere d’acqua dei granelli di sale, come farebbe un bambino che non sa nulla di chimica e di fisica, ovvero assumiamo un atteggiamento puramente fenomenologico. Osserviamo tuttavia che uno ad uno i granelli di sale scompaiono nell’acqua. Continuando a gettare granelli nell’acqua, notiamo che da un certo granello in poi non scompaiono più, perché li vediamo cadere sul fondo e accumularsi. A questo punto un bravo chimico direbbe che la soluzione è “satura”. Ma la prima domanda che si pone il bambino è questa: “dove prende l’acqua la forza per distruggere i granelli di sale?” E poi ancora: “Perché l’acqua distrugge un certo numero di granelli di sale e un numero diverso di granelli di marmo?”. Evidentemente l’acqua compie un lavoro per “distruggere” i granelli di sale e compie un diverso lavoro per distruggere quelli di marmo. Inoltre l’acqua può compiere solo una quantità definita di lavoro e ciò dà conto del numero di granelli di sale o di marmo che riesce a “distruggere”. Così risponderebbe il nostro bambino alle domande precedenti.
L’acqua dunque compie un lavoro per portare in soluzione una specie chimica e la quantità di soluto dipende dalla quantità di lavoro che l’acqua deve compiere. Questo lavoro l’acqua lo compie una volta per tutte, anche se vengono rimossi gli ioni, cioè i cocci della molecola rimasti nell’acqua a seguito della “distruzione” delle molecole di soluto. In altre parole il lavoro fatto dall’acqua per sciogliere la molecola rimane immutato, e non possiamo agire su di esso, anche quando nell’acqua non sono più presenti gli ioni del soluto. Di questo lavoro generalmente la chimica non ne parla. Ma c’è di più, quel lavoro non ha soltanto un aspetto quantitativo, ma anche uno qualitativo, tanto è vero che l’acqua, pur in presenza di corpo di fondo di una specie chimica, è ancora in grado di portarne in soluzione un’altra. Potremmo allora pensare che per distruggere una specifica molecola, l’acqua metta in opera una sua capacità di antimolecola, ossia un’azione uguale e contraria a quella che ha formato la molecola, e questa azione viene ad essere l’antimolecola; ad esempio: nel momento in cui ammazzo un pollo divento l’antipollo.
Cosa succede quando preparo un rimedio omeopatico? Pur diluendo ripetutamente la soluzione, cioè aggiungendo altra acqua e via via rimuovendo gli ioni che si erano formati, non incido minimamente sul lavoro che l’acqua ha fatto un volta per tutte per portare in soluzione il soluto che vi ho immesso inizialmente. Quel lavoro rimane impresso nel corpo dell’acqua, ed è parte del ricordo specifico dell’acqua.
Dunque non una memoria generica, ma dipendente dalle antimolecole presenti, ossia una memoria del negativo del soluto; se era stato portato in soluzione sale da cucina, saranno antimolecole del sale da cucina, se era ferro del ferro, e così via. La memoria dell’acqua è costituita non da ciò che è presente in essa, bensì da ciò con cui ha interagito, e non c’è più; e poiché il ricordo è costituito da una mancanza, che ha lo stesso tessuto del desiderio, non soggiace alla legge dell’azione di massa.
In conclusione il rimedio omeopatico veicola antimolecole, che equivalgono alla mancanza di una specifica sostanza. Quelle antimolecole diventano tanto più efficaci quanto più vengono separate dalla sostanza di partenza e dai suoi i residui; ecco spiegato il ruolo e la necessità delle successive diluizioni. Diluendo si ottiene un’acqua sempre più pura, ma sempre più pura nel contenuto di antimolecole, le quali, pertanto, acquistano maggior potenza, così come un desiderio viene rafforzato dall’aumentare della distanza che lo separa dalla sua realizzazione.
Quando si usa un farmaco in dosi ponderali si devono fare i conti con le dosi, nel senso che si somministrerà un antipiretico nella misura ad es. di un grammo a una persona di ottanta chili, mentre ad un neonato se ne dovrà dare in misura molto minore. In omeopatia il neonato e l’uomo di 80 chili ricevono la stessa dose di antipiretico, innanzitutto perché il rimedio omeopatico non contiene sostanze chimiche (a parte quelle che costituiscono il supporto, ovviamente), e poi perché non veicola neppure un principio attivo, bensì la mancanza di uno specifico principio attivo. Come si è detto in precedenza, la parte attiva del rimedio omeopatico è un inverso, un anti-principio, a cui non si applica la legge dell’azione di massa. L’anti-principio è una mancanza, e veicolare ad un organismo una carenza, equivale a indurre in quell’organismo una richiesta di ciò che non ha. Così l’antisale, è la mancanza di sale, che passa all’organismo questa informazione: “guarda che ti manca il sale”. Questa informazione può essere veicolata senza danno in ugual misura al bambino e al grande. Varia grandemente invece ciò che avviene in seguito, nel senso che il neonato reagirà a questa mancanza producendo la quantità di sale idonea per lui, mentre alla stessa informazione l’organismo di 80 chili risponde producendone una diversa e maggiore quantità.
Vi è dunque una differenza abissale tra la medicina omeopatica e quella allopatica.
L’omeopatia non può essere dannosa, neppure quando il medico sbaglia prescrizione. Supponiamo ad esempio che il rimedio omeopatico erroneamente prescritto veicoli la voglia di bere: l’organismo risponderà che già bevuto. In omeopatia si può sbagliare, ma solo nel senso di prescrivere un rimedio inefficace, perchè per la sua stessa struttura non si può dare un rimedio dannoso. È sempre l’organismo che organizza la propria risposta alla domanda formulata dal rimedio omeopatico, pertanto è fondamentale per l’omeopata conoscere quanto meglio possibile l’organismo del suo paziente per capire quali sono le sue carenze, mentre al medico allopatico, per la sua prescrizione, basta la comprensione dei sintomi e un buon manuale.
Le considerazioni precedenti si possono ulteriormente argomentare considerando l’interrogativo: “Quale è la differenza tra la molecola e l’anti-molecola?”. Tutta la materia nasce organizzata, non esiste una particella che non sia retta da un progetto, non c’è corpo materiale che non sia strutturato secondo un progetto, in altre parole la materia inorganica non esiste perché non potrebbe sussistere senza una predisposizione di fondo. Ogni oggetto del mondo fisico sottostà ad un progetto così come sottostà ad un progetto la Pietà di Michelangelo. La statua è il risultato di un processo ideativo, prima di farla occorre pensarla, Nel momento in cui la statua è realizzata, il progetto è andato a finire dentro la statua, che ne è la materializzazione nello spazio e nel tempo, in una parola, l’incarnazione, mentre il progetto era fuori dallo spazio e dal tempo e coincideva con la mancanza della statua, ossia col desiderio di realizzarla.. Ne consegue che la statua si oppone al suo progetto come la potenza si oppone all’atto.
Tornando ai nostri granelli di sale da cucina, le molecole immesse nell’acqua sono altrettante statue, –come direbbe Aristotele– formate secondo il progetto dell’NaCl. Nel momento in cui la molecola in quanto tale viene distrutta, è come se la statua venisse separata dal suo progetto e questa distruzione avviene ad opera dell’acqua e dentro il corpo dell’acqua, quindi nell’acqua rimane racchiuso il progetto per costruire la statua, ossia la molecola.
Questo è un altro modo, ma del tutto equivalente al precedente, di interpretare la memoria dell’acqua. Ma è anche molto di più: è una visione del mondo più completa dove la metafisica, intesa come scienza del pensiero, e la fisica si integrano a vicenda senza contraddirsi, perché non possono prescindere l’una dall’altra.
In conclusione somministrando il rimedio omeopatico, si fornisce all’organismo il progetto per costruire qualcosa, se l’organismo ne ha bisogno, usa il progetto, altrimenti lo scarta; ecco perché l’omeopatia cura, pur essendo completamente innocua.